Come ci guarderemo quel giorno?










Il poeta Mongane Wally Serote scrive:
Così avremo sepolto l’apartheid […]
Come ci guarderemo quel giorno,
Come ci stringeremo la mano […]
Che aspetto avremo
Quando spunterà l’alba
[…] lo chiedo al mio popolo
Poiché abbiamo detto
Che il Sudafrica appartiene a tutti
Coloro che ci vivono[1]
Scegliere cosa ricordare è anche un modo per consigliare scelte per il presente e il futuro.
C’è molto da dimenticare, in Sudafrica. Le forze progressiste del Paese si sono impegnate a dar vita a uno degli eventi straordinari nella storia della società mondiale: il completo rovesciamento di tutto ciò che per secoli ha regolato la vita di tutto il popolo sudafricano, guidato dalle incarnazioni del razzismo che si sono via via susseguite a livello governativo (conquista, colonialismo, repubblicanesimo bianco, …), ripetutamente culminate nella violenza.
La violenza accompagna ormai questo popolo da lunghissimo tempo come pura espressione del razzismo. Nelle sue manifestazioni più recenti è senza dubbio ancora una manipolazione di quello stesso razzismo: un prodotto finale delle antiche idee coloniali fondate sul principio dello “spartisci e governa”, prendi la terra e trasforma in reucci tutti quelli che sostengono il potere del governo bianco nell’enclave etniche.
La violenza implica l’odio? Personalmente sono pronta a sostenere che l’odio verso i bianchi, nelle condizioni estreme del razzismo in Sudafrica, è stato ed è tuttora raro tra i neri sudafricani.  L’odio uccide. È orribile dover quantificarne le morti. Ma quanti civili bianchi sono stati uccisi dai combattenti per la libertà neri tra il 1961 e il 1990, quando il movimento di liberazione decise di ricorrere alla armi?
Sessantasei.
Il numero dei civili neri uccisi dai bianchi a partire, per esempio, dal massacro di Sharpeville del 1960, è nell’ordine delle svariate migliaia; nessuno sa veramente quanti siano, contando le persone morte in carcere e quelle che hanno perso la vita durante le azioni di polizia.
E adesso, come se non bastasse, ci sono altre quattromila vittime di scontri fra neri. Queste dispute sanguinose, definite dai media “violenza dei neri su neri”, a sottintendere che deve trattarsi di una violenza tribale, sono fondamentalmente politiche. Per dirla in termini chiari: senza il sistema basato sulla manodopera migrante che costringe migliaia di lavoratori, accomunati da un unico legame, quello del branco, ad alloggiare in ostelli per soli uomini, senza il caotico sovraffollamento delle township nere e dei campi di squatter in cui questi uomini vengono scaricati e costretti a vivere in mezzo a un ammasso di persone, sfrattate dal luogo in cui vivevano per effetto del Group Areas Act (Legge sulle aree etniche), senza tutto ciò le insostenibili tensioni che sorgono per qualsiasi cosa – spesso banale come l’uso in comune di un rubinetto – non verrebbero a crearsi.
Ma l’abitudine alla violenza ormai è stata instillata e questo è un problema che sappiamo verrà ereditato da un nuovo Sudafrica. Il vocabolario della violenza è diventato la lingua comune tanto dei neri quanto dei bianchi.
Tra questi ultimi, considerata l’esistenza di non meno di settanta organizzazioni estremiste (alcune composte da un pugno di persone, altre assai numerose), direi che l’odio è il movente stesso della violenza. Abbiamo visto i ripugnanti striscioni innalzati da certa gente. Abbiamo sentito il veleno lanciato contro i neri sotto il segno di una nuova versione della svastica. Ma a parte questa minoranza, sono convinta che i sentimenti ostili dei bianchi non si spingano fino all’odio. La paura, infatti, non sempre è inestricabilmente accompagnata dall’odio. E il sentimento che prevale tra i bianchi è la paura, la paura di una punizione per tutto quello che è stato fatto ai neri dai loro progenitori, dai governi per cui essi stessi hanno votato; per tutto quello che hanno fatto agendo in prima persona e anche per il loro silenzio, il loro chiudere gli occhi e voltarsi dall’altra parte. La paura di perdere il privilegio: anche se riescono a convincersi che non perderanno la vita, temono comunque di essere spogliati dei privilegi di bianchi. Ma nel subconscio riconoscono l’odio come l’inutile sentimento che è in realtà, anche considerando solo l’utilità che potrebbe avere per loro, adesso: assolutamente nessuna.
I bianchi convogliano le loro paure in modo più pragmatico. Nel famoso romanzo di Tomasi di Lampedusa in cui si descrive la tattica della decadente aristocrazia siciliana durante l’invasione delle truppe repubblicane di Garibaldi, uno dei signorotti dice: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.[2] In altre parole: “Dobbiamo operare tutti i cambiamenti necessari per ritardare la perdita del nostro privilegio”.
Dobbiamo imparare a riconoscere il paradosso di tale situazione.
Il risentimento è una potenziale fonte di violenza tra i Sudafricani. Benché distinto dall’odio, distorce e paralizza i rapporti umani, il risentimento nasce nel privilegiato dopo che il privilegio gli è stato giustamente tolto; il risentimento è qualcosa che accompagna l’oppresso da tutta la vita, da generazioni, e che probabilmente continuerà a esistere, ravvivato dalla libertà che lo fa ardere sotto le ceneri della passata oppressione, negli atteggiamenti di molti neri verso i bianchi, dopo l’apartheid. Bianchi e neri, dovrebbero tutti trovare modi diversi dalla violenza per sconfiggere entrambi i tipi di risentimento.
Molto viene fatto, nel mondo esterno e nel Paese, tra coloro che si oppongono a un reale cambiamento o sono determinati a gestirlo a proprio vantaggio, per sfruttare le differenze culturali come fonte di violenza tra bianchi e neri in Sudafrica. Ma se abbandonassero l’ossessione delle categorie fondate sui gruppi etnici e cessassero di trascurare i rapporti quotidiani, individuali, da cui in definitiva dipendono i rapporti umani, scoprirebbero che modi di vivere, costumi e usanze imposti dalle leggi dell’apartheid (fino ai dettagli di quale gabinetto usare) e dall’abitudine (fino alla classificazione della carne fresca distinta in tagli generali, ‘carne per la servitù’, e ‘carne per cani’), tali modi di vivere cui sono stati destinati hanno creato differenze tra bianchi e neri che non sono né il prodotto di diverse tradizioni e religioni, né una questione di indole etnica.
Sono state la politica e le leggi razziste a provocare alterazioni morbose, a favore della violenza, nel comportamento dei bianchi. La razza è diventata il pretesto per ogni forma di conflitto personale, a casa, sul lavoro, per strada. In società in cui le persone sono definite dal colore della pelle, i difetti individuali più comuni diventano attribuibili alla razza dell’imputato. Tutti, bianchi e neri, almeno una volta vengono sorpresi a seguire questo tipo di ragionamento condizionato.
Queste conseguenze storiche e psicologiche della violenza ereditate dal passato non vanno affrontate come una qualche maledizione immutabile, bensì come forme di condizionamento che possono dis-imparare, imparare a dimenticare, sbarazzandosi delle antiche differenze di colore da cui furono concepiti una dittatura del colore della pelle, un sistema politico, un sistema di dottrine religiose e un bizzarro ordine sociale, e da cui è derivata tanta sofferenza.
Sono convinta che si debba creare una giustizia materiale prima di poter sperare di eliminare la violenza divenuta ormai una tragica abitudine in Sudafrica. Una volta posta questa base, credo che ci siano buone possibilità di instaurare rapporti corretti fra neri e neri, bianchi e neri, qualunque lingua parlino e qualunque sia la loro origine etnica. Giacché non riesco a pensare a nessun altro Paese africano in cui, nonostante il singolare razzismo in Sudafrica, una percentuale così alta di persone di tutte le razze abbia appoggiato la lotta dei neri per la libertà, riconoscendola come la propria causa. Ora occorre una politica che alimenti la giustizia materiale prima di poter sperare di vivere in pace. Nuove leggi devono cambiare le condizioni economiche della maggioranza, la guarigione può avvenire solo a partire da questa onestà di intenti. E tale guarigione avrà bisogno di tutta la pazienza e la tolleranza che, sono convinta, molti bianchi e neri sono disposti a concedere.



[1] M.W. Serote, a Though Tale, Kliptown Books, London 1987
[2] G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1984.